C. Agliati u.a. (Hrsg.): Ornato e architettura nell’Italia neoclassica

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Titel
Ornato e architettura nell’Italia neoclassica. Il fondo degli Albertolli di Bedano, secc. XVIII-XIX


Herausgeber
Agliati, Carlo; Cordera, Paola; Ricci, Giuliana
Erschienen
Bellinzona 2019: Repubblica e Cantone del Ticino - Archivio di Stato
Anzahl Seiten
755 S.
von
Marino Viganò

La fondazione dell’Accademia di Belle Arti di Brera per decreto di Maria Teresa d’Absburgo, il 22 gennaio 1776, se marca una tappa nella storia dell’insegnamento delle materie figurative nello Stato di Milano, segna ancor più una frattura nell’apprendistato tradizionale, tra bottega e corporazione, degli artigiani di nazione lombarda. Punto d’arrivo della «statizzazione» degli studi – avviata nell’Impero absburgico nel settore militare, con le Genie-Akademie di Vienna (1717) e Bruxelles (1718) create dal principe Eugenio di Savoia-Soissons per formare in alveo «nazionale» gli ufficiali del Genio e dell’Artiglieria –, l’iniziativa dell’imperatrice-regina mira a sottrarre pure nel campo civile la trasmissione di competenze a filiere «private» per assegnarle all’organizzazione e al controllo pubblici.

Già empirico, difforme, esterno alla sfera statale, esposto all’alea delle circostanze e incentivo d’ondivaghe fedeltà dei tecnici verso il potere, l’insegnamento viene allora normato in scuole, fissato in corsi, formalizzato in esami. Senz’altro più conformista, questo studio, sistematico, basato su trattati alquanto schematici – benché affiancato da laboratori operativi –, estingue gradualmente un millennio di trasmissione diretta delle competenze maestro-allievo, in quel torno di tempo consegnata ovunque, non a caso, mentre istituzioni simili sono aperte in tutta Europa, dal campo operativo a quello speculativo della Massoneria, che si vuole fondata nel 1717. Una generazione di maestranze allevate al vecchio modo si trova così a vivere la fine di pratiche plurisecolari, sostituita da quelle di estrazione accademica, ma pure assorbita qua e là negli istituti, per fornirne i primi quadri.

Restando a Milano e a Brera, la personalità senz’altro più rappresentativa, metafora si direbbe di tale svolta epocale, è Giocondo Albertolli, archtetto e maestro d’ornato «ticinese» di vita lunghissima e fama ampia, la cui biografia pare confezionata appositamente dal destino per sintetizzare il cambio di passo, anche per le origini in una terra associata per consuetudine al mondo corporativo. Nato il 24 luglio 1742 da Francesco Saverio, non per nulla architettore, e da Margherita De Giorgi, a Bedano, nel Malcantone luganese fornitore di magistri muratori all’intero continente, certo acclimatato in famiglia alla professione di edile, Albertolli inizia, in realtà, in maniera inusuale la carriera, allievo dal 1753 dell’Accademia di Belle Arti di Parma – appena istituita nel 1752 dal duca Ferdinando I di Borbone, ciò che implica per la prossimità cronologica una scelta deliberata e consapevole del padre –, preparandosi in disegno, scultura plastica, stuccatura, arti applicate alla villa del Poggio Imperiale, nel granducato absburgico di Toscana nel 1770, nel Parmense dal 1772, a Napoli nel 1773, a Milano e ancora a Firenze nel 1774, e nuovamente a Milano dal 1775.

Apprezzato fuori di dubbio dall’élite di governo, aggregato l’anno dopo all’Accademia di Belle Arti neonata, vi crea e dirige sino al 1812 la scuola di ornato, pubblicando a mo’ di «manuali» volumi illustrati dai migliori incisori, da Domenico Aspari a Giuseppe Longhi, a Giacomo e Michelangelo Mercoli, conterranei, e dal figlio ed emulo Raffaele. Lavora inoltre per decenni, senza soluzione di continuità, neppure politica – un’attitudine comprensibilmente comune ad artisti di ogni epoca – nelle maggiori fabbriche della Lombardia austriaca, napoleonica, poi di nuovo austriaca, tra il Palazzo reale di Milano, la Villa reale di Monza (1775-’79), le dimore patrizie Belgioioso (1775-’85) e Casnedi e Greppi (1776-’79), il teatro alla Scala (1778), la casa Busca-Arconati (1789), il palazzo Melzi di Milano (1807), il monumento a Napoleone a Lodi (1809), villa Melzi a Bellagio (1810-’15).

Quando si spegne a Milano, il 15 novembre 1839, novantasettenne, come architetto e come ornatore Giocondo Albertolli lascia un cospicuo patrimonio di edifici e di decorazioni, specie in stucco, e pure di mobilio, esemplari dell’evolvere del gusto dell’epoca, dal tardobarocco al neoclassico. Ma anche, a differenza di altri artisti i cui archivi finiscono frazionati, dispersi o perduti, un imponente nucleo di progetti e schizzi di insieme e dettaglio a matita, a china, ad acquerello, recuperati fortunosamente nel 1942 all’Archivio cantonale (ora Archivio di Stato) del Cantone Ticino, a Bellinzona, poi ancora integrati nel 1947. Un complesso di 486 disegni, 141 incisioni, 9 raccolte didattiche, 33 lettere autografe, 9 documenti, tra i quali 436 pezzi di Giocondo, 43 del figlio Raffaele, 110 del figlio Ferdinando, 6 del nipote Fedele, e 21 lettere dalla corrispondenza di loro famigliari.

Inteso quale catalogo della collezione alla quale dedica, con 595 schede, metà dell’impianto, il tomo coordinato da Carlo Agliati, Paola Cordera, Giuliana Ricci si stende tuttavia ben oltre il fine inventaristico. La dozzina di saggi introduttivi, redatti con il ricorso all’ampia bibliografia e a fonti per nulla battute dalla storiografia, superano anch’essi i limiti della biografia umana e professionale del protagonista: gli autori, oltre ai coordinatori, una dozzina, vi tratteggiano in modo più ampio, con riferimenti archivistici, una panoramica della vita artistica, culturale e, di riflesso, politica delle corti italiane, e a più modesto livello dell’area del baliaggio elvetico di Lugano dalla quale gli artisti escono.

Fra i testi si possono elencare Iconografia albertolliana: immagini di una famiglia di «neocomacini», in cui Carlo Agliati dà conto della ritrattistica relativamente abbondante del casato in virtù della celebrità raggiunta dal capo e dell’epoca, nella quale si fa, in generale, più comune e sopravvive a perdite e distruzioni; Prima di Giocondo: gli Albertolli e i Luganesi in Valle d’Aosta, di Andrea Bonavita, che rintraccia i «precursori» inuna provincia del Piemonte sabaudo della prima metà del XVIII secolo; mentre Occasioni formative e professionali degli Albertolli a Parma, 1753-1813, di Carlo Mambriani, va alle radici della veste «accademica» del capostipite, uscito dalla cerchia tradizionale, ed è significativo, avanti la nascita del centro d’attrazione milanese dell’Accademia di Belle Arti di Brera.

Con Giocondo e Grato Albertolli: la stagione fiorentina, di Roberta Roani, emerge l’età decisiva per il suo profilarsi alla corte austro-lorenese, sul trono nel granducato di Toscana e nel Milanese; Tra architettura e ornato nella Lombardia neoclassica: la felice collaborazione di Giocondo Albertolli con l’Imperial Regio Architetto Giuseppe Piermarini, e Dopo Piermarini, le opere d’architettura di Giocondo Albertolli, di Giuliana Ricci, entrano nel vivo dell’avvio e del consolidarsi della sua fortuna in pieno rinnovamento urbano; Giocondo Albertolli e l’ insegnamento dell’ornato nell’Accademia di Belle Arti di Brera, 1776-1812, e I repertori per l’ornato di Giocondo Albertolli, di Alessandro Oldani, ne ricostruiscono la quarantennale direzione dei corsi sotto cinque regimi (Impero absburgico, Repubblica cisalpina I e II, Repubblica italiana e Regno italico), e nei rapporti con Giuseppe Bossi, segretario dell’istituto dal 1801.

Vira dall’architettura e decorazione alle forniture Giocondo Albertolli creatore di «scelte mobiglie», di Vanessa Gavioli, mostrandone su pezzi superstiti ed echi in dipinti l’influsso nel mutamento di gusto pure nell’arredamento, svecchiato e semplificato rispetto ai moduli del barocchetto e del rococò; La forma dell’Idea. Recupero e assimilazione del linguaggio classico nel repertorio albertolliano, di Paola Cordera, si volge agli aspetti teoretici, e ai modelli non solo italiani di riferimento del decoratore in un classicismo imbevuto di paesaggio, archeologia, lettere; La lezione albertolliana nella decorazione a stucco e nell’arredo liturgico del Cantone Ticino, di Edoardo Agustoni, piega sulla ricca panoplia di soluzioni che, pure, semplificano un linguaggio giunto al parossismo a inizio XVIII secolo, ora raggelato e nettato; Ferdinando Albertolli, architetto, ornatista, incisore, di Paolo Mira, ripercorre le attività e il lascito del nipote-genero di Giocondo, suo successore a Brera. Gli apparati – Catalogo del fondo, Repertorio delle filigrane, Tavola genealogica, Bibliografia, nell’ordine si devono a Carlo Agliati, Paola Cordera, Giuliana Ricci, a Nana Badenberg e Lorenza Mossi, a Carlo Agliati, a Mauro Carmine.

Particolarmente sontuoso, curato, il tomo ha tutti i numeri per marcare una soglia negli studi. Oltre ai contributi del capofamiglia, dei figli e di allievi alla diffusione di uno stile, dagli albori alla maturazione, tra metà e fine XVIII secolo, e all’apice nel primo trentennio del XIX, sono proposti nel volume documenti e iconografia che lo rendono una «enciclopedia delle arti» tra architettura, decorazione, forniture di un tempo in cui edifici e interni presentano elementi di originalità tali da qualificarlo; avanti lo scadere nel neogotico e nello pseudorinascimento di metà-fine secolo, anonimi e privi d’originalità, riscattati decenni dopo dall’art nouveau. Pure da tale punto di vista l’opera si segnala per testo di riferimento. E il recupero recente di materiali su altri malcantonesi potrebbe sollecitare ora a volgersi all’indietro, agli antenati di tali figure, ai capostipiti di queste «filiere».

Zitierweise:
Viganò, Marino: Rezension zu: Ornato e architettura nell’Italia neoclassica. Il fondo degli Albertolli di Bedano, secc. XVIII-XIX a cura di Carlo Agliati, Paola Cordera, Giuliana Ricci, Bellinzona, Repubblica e Cantone del Ticino - Archivio di Stato, 2019. Zuerst erschienen in: Archivio Storico Ticinese, 2019, Vol. 166, pagine 173-175.

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Archivio Storico Ticinese, 2019, Vol. 166, pagine 173-175.

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